Carità

 

Si usa ancora la carità? Dobbiamo educare i nostri bambini a “fare la carità”?

In latino la parola caritas indica amore, stima, affetto. Un significato che stiamo perdendo, tant’è vero che quando diciamo: “la Caritas”, non intendiamo affatto l’amore verso gli altri, bensì quella benemerita organizzazione che – presente in tutte le nostre parrocchie – aiuta chi è nel bisogno grande o piccolo esso sia. Possiamo, quindi ipotizzare due significati della parola “carità”: aiuto concreto e amore per i fratelli.

 

Partiamo dal primo…

Troppo spesso sento parlare di questo aspetto con parole denigratorie: l’offerta durante la Messa alla presentazione dei doni, la cassettina quaresimale, gli sms per i terremotati, ecc., tutti gli atti di “carità” vengono troppo spesso conglobati sotto la parola elemosina e declassati come poco adatti a essere proposti ai nostri figli. Sono, invece, comportamenti altamente educativi: l’elemosina è ancora un valore e lo deve restare. Se, infatti, è un dovere morale astenerci dal dare gli spiccioli a chi chiede suonando il campanello, al parcheggio o fuori dalla chiesa: semplicemente perché dando così, teniamo quelle “persone” sulla strada (ed è bene indirizzarle appunto alla “Caritas”), tutte le altre forme sono validissime. Cominciamo dalle offerte durante la Messa. I nostri bambini fin da piccolissimi devono vedere papà e mamma che danno il loro obolo; imparano così da subito che ci sentiamo “comunità” e che pertanto sosteniamo la nostra parrocchia anche con i contributi finanziari che servono sì per la manutenzione, il riscaldamento, il telefono e quant’altro, ma anche per quei poveri vicinissimi a noi e che noi non vediamo per pudore loro o per cecità nostra. Ma possiamo continuare con le altre forme di “elemosina” che hanno anch’esse alto valore formativo delle giovani generazioni. Dare per i terremotati, gli alluvionati, le vittime di una catastrofe… serve a educare i nostri bambini a uscire dall’egoismo ed entrare nella solidarietà. Certo è prudente dare solo a chi ci è ben noto: alla parrocchia, al missionario del nostro paese o quartiere, a quella nostra ex collega, ora volontaria, che là in Tanzania, facendo la maestra d’asilo, ha aperto un dispensario medico, ecc., ecc.; persone, cioè, con le quali manteniamo un contatto stretto e che ci rendono conto del loro operato.

 

Pedagogia positiva per la seconda forma di carità?

Già quando i bimbi sono molto piccoli possiamo attuare un’attenta proposta educativa circa l’amore, abbinandola ad atteggiamenti di gratuità, evidenziando quanto il “servizio” sia importante e quanto riteniamo indispensabile che i nostri bambini siamo attenti alle esigenze del prossimo. Andranno a far parte dei Ministranti, del Coro, del Gruppo Scout, dell’ACR, di una o l’altra delle tante iniziative proposte in parrocchia, ma loro come noi daremo del tempo in regalo agli altri. Dono di se stessi, non “fioretti” ma gesti interpersonali buoni, belli, generosi, gratuiti, verso i “vicini”, i “prossimi”. Certo noi dobbiamo essere modelli sia nel linguaggio sia nell’azione, stimolo a “fare la carità e a diventare carità”; a “fare azioni buone, perché siamo buoni”.