La religiosità nei bambini

 

Questo capitolo e i successivi, numerati con XXII-XXXII-XLII LII-LXII-LXXII, trattano della fede. Ecco la prima domanda. In tutte le parrocchie l’educazione religiosa dei bambini (ICFR) inizia a sei anni; ma prima non si fa (o non si deve fare) niente?

I nostri bambini, sin da piccoli hanno bisogno di attenzioni educative anche per ciò che riguarda la trasmissione del dono della fede… e tali attenzioni non possono che cominciare prestissimo, se è vero – come è vero e lo diremo dopo – che la religiosità si manifesta molto, molto prima dei sei anni.

 

Come si fa a essere buoni educatori soprattutto nell’educazione alla fede?

Il modello – sublime – non ci manca! Parto da un’immagine biblica: Quando Israele era bambino, io l’ho amato e l’ho chiamato a uscir fuori dall’Egitto, perché era mio figlio (…); gli ho insegnato a camminare, prendendolo per mano. L’ho tenuto tra le mie braccia (…). L’ho attirato a me con affetto e amore. Sono stato per lui come uno che solleva il bambino fino alla guancia. Mi sono abbassato fino a lui per imboccarlo… (Os 11,1 e ss.).

La mamma è appena tornata a casa dall’ospedale con il suo bambino. È addirittura inutile dirlo che lo ama: lo ama ancor più di se stessa; ma da subito è necessario che lo chiami a “uscir fuori (educare significa far uscire) è necessario che lo solleciti a crescere. E tutto questo perché? Perché è suo figlio.

Non solo: passati i primi mesi, a questo figlio vogliamo “insegnare a camminare, prendendolo per mano” proprio perché non cada (le esperienze negative, lo sappiamo, non fanno bene). È un tenerlo per mano che dà la tranquillità delle nostre scelte, intellettuali, morali, psichiche, religiose, sociali, affettive; un insegnamento che si rivolge alla persona nella sua integralità.

Lo vogliamo “tenere tra le bracciaper dargli il nostro calore, la nostra forza, la nostra sicurezza, le nostre convinzioni; tra le nostre braccia si sente sicuro, protetto, coccolato da un padre o da una madre onnipotenti anche nell’amore.

E lo “attiriamo a noi”, lo facciamo diventare (un poco alla volta) grande come noi, lo “solleviamo fino alla nostra guancia”, luogo del primo bacio del bambino; ma anche luogo del bacio del giovanotto quando lascerà suo padre e sua madre perché maturo e in grado di condurre una vita autonoma. Ma, fino a questa partenza ci “abbassiamo fino a lui per imboccarlo”, per dargli il cibo materiale e spirituale di cui ha bisogno. Né l’uno, né l’altro possono mancare.

 

Dunque, un bambino – anche piccolo – ha dei bisogni di natura religiosa?

Indubbiamente sì, anche se tendiamo a non darvi importanza: Attuiamo infatti, nel campo della risposta ai bisogni religiosi del bambino piccolo, un comportamento ben differente da quello di Dio verso il suo popolo bambino; cioè una pedagogia negativa fatta di “ignavia”. Ci sono molti genitori che non si curano affatto dell’educazione religiosa dei bimbi molto piccoli, semplicemente non ponendosi il problema o dicendo che non li vogliono plagiare, oppure sostenendo che non capiscono niente. Io risponderò esponendo le tesi di G. Piaget (1896-1980) per stare al sicuro circa la qualità della risposta.

 

E chi è questo Piaget?

Indubbiamente un grandissimo epistemologo genetico (con parole molto semplici da epistéme conoscenza scientifica e logia studio: l’epistemologia studia la conoscenza scientifica nei suoi fondamenti, principi, metodi contenuti, ecc.; la genetica da génesis generazione studia l’origine delle strutture; pertanto l’epistemologia genetica studia l’origine, la nascita e l’evoluzione delle strutture mentali e cognitive). Pubblicò una sessantina di libri e centinaia di articoli. Ebbe tre figli: Jacqueline, Lucienne e Laurent che furono attentamente educati, seguiti e studiati dal padre nella loro evoluzione (intellettuale, linguistica, affettiva, cognitiva, ecc.). Nel 1955 fondò e diresse fino alla morte il Centre International d’Epistémologie Génétique di Ginevra.

 

Allora che dice Jean Piaget a proposito della religiosità dei bambini?

La vita religiosa, durante la prima infanzia – scrive lo psicologo svizzero – si confonde con lo stesso sentimento filiale: il bambino piccolo attribuisce spontaneamente ai propri genitori le diverse perfezioni della divinità quali l’onnipotenza, l’onniscienza e la perfezione morale.

Ciò vuol dire che fino a 3 anni (circa) per ogni bambino mamma e papà sono il suo Dio, onnipotente e onnipresente, perfettissimo. Sono loro che possono modificare ogni suo stato di bisogno in benessere e piacere; sono, come Dio, in grado di dare tutto ed anche di privarlo di tutto.

Un periodo in cui tutto dipende dai noi genitori e se lo abbiamo sprecato con modelli inadeguati (pedagogia negativa) non potrà più ritornare.

 

Questo vale per i bambini più piccoli, ma per quelli che hanno più di tre anni?

    Quando, con l’infanzia (3-6 a.), queste certezze spontanee cominciano ad andare in crisi, sorge l’esigenza di avere “qualcuno” che sia veramente buono, onnipotente, onnisciente, perfetto; nasce così l’idea di Dio. Solo quando il bambino scopre, a poco a poco, le reali imperfezioni dell’adulto, i sentimenti filiali vengono sublimati e trasferiti sugli esseri soprannaturali offerti dall’educazione religiosa. (J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino, 1967, pag. 75).

E se l’educazione religiosa manca? É il vuoto. Il piccolo non ha il “nutrimento” di cui abbisogna per crescere… e un bambino che non trova nell’ambiente ciò che gli serve per crescere non è libero, ma abbandonato (Maria Montessori). E di questo “abbandono di minore” sono indubbiamente responsabili i genitori. Perciò non abbandoniamolo, non eludiamo le sue domande, diamogli risposte autentiche sia con le nostre parole che con i nostri comportamenti.

 

Ancora una volta: per educare bene (in questo caso la spontanea religiosità del bambino) sono importantissimi i comportamenti concreti dei familiari.

Con le nostre parole e con la nostra vita possiamo far “vivere” la paternità di Dio (che ci è padre e madre); l’amore col quale si manifesta la sua misericordia che non perdona né “sette”, né “settantavoltesette”, ma sempre; la fraternità con il Salvatore (che ha dato la vita per noi e ci ha donato il cibo spirituale, offerto tramite la Chiesa); la provvidenza (che non manca e che possiamo leggere nei fatti quotidiani); la fiducia (secondo la quale – ne siamo certi – il bene prevarrà sul male); la speranza cristiana (che ci aiuta a vivere il futuro come realtà positiva, rendendo così vivibile anche il presente) e, di conseguenza, la gioia di essere al mondo indirizzati verso un destino “dell’altro mondo”.

Queste attenzioni ai “bisogni” religiosi dei figli con meno di 6 anni aiutano ad avvicinarci al “modello” che abbiamo descritto all’inizio: l’amore di Dio per il suo popolo bambino.

Se questa educazione religiosa non è mancata su questa base, facilmente, si innesterà la successiva in cui interverrà attivamente la Parrocchia con le attività di Iniziazione Cristiana dei Fanciulli e dei Ragazzi (ICFR).

 

Infine la scuola…

    La scuola dell’infanzia, come si chiama adesso, non può trascurare la formazione religiosa sia essa scuola cattolica o scuola dello stato valorizzando le “Indicazioni Programmatiche” che provengono dalla CEI d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione, pena il rischio di formazione di una personalità monca, zoppicante, incompleta, insicura.