Non ne posso più

 

«Non ne posso più» è la rassegnata dichiarazione di una mamma che – già donna “in carriera” – con la nascita del primo figlio ha deciso di “fare solo la moglie e la mamma”.

Che dire?? Bisogna dire che il guaio di avere un figlio è che poi ce l’hai davvero. Il figlio non è un bambolotto che puoi dimenticare in un angolo, non è un robottino che gira da solo e non è nemmeno un cagnolino che porti a spasso quando ti pare.

Un carissimo collega, educatore abilissimo e capace di tenere a bada non una classe ma tutti gli alunni di una scuola, una volta affermò che il Padre Eterno ha sbagliato nel fare i bambini: «avrebbe dovuto – disse – dotarli in fronte di due manopole: una OFF-ON per spegnerli quando non se ne può più e l’altra per “abbassare” il VOLUME quando c’è bisogno di calma». Così non è, né per le mamme, né per i papà e neppure per i maestri.

Indubbiamente controproducente è farsi autenticamente “divorare” tutte le energie, tutto il tempo e tutte le forze… e non reagire; in inglese si chiama “burnout”, letteralmente bruciare fino in fondo, farsi cioè assorbire talmente dal proprio compito da arrivare a non avere più alcuna forza per vivere. Significativa è la mail che ho ricevuto sull’argomento, diceva: «Mia figlia mi segue dappertutto, mi sta tra i piedi tutto il santo giorno, non mi molla un attimo, sta sempre appiccicata, non ho più un minuto per me».

In questi casi atteggiamento sbagliato è quello di brontolare, borbottare, lamentarsi con le solite frasi del tipo: «Non li sopporto, non ce la faccio più!»e vivere così… quasi contenti di essere “vittime” di una situazione che non possiamo cambiare (altri semmai dovrebbero “fare”…, noi no!).

Non va bene neanche subire la reazione oppositiva del figlio: «Non fa altro che ribellarsi tutto il giorno, risponde sempre di no, fa sempre esattamente il contrario di quello che dico, si rotola per terra in mezzo alla strada per averla vinta, piange per strappare i consensi di chi ci vede» (anche qui… lui dovrebbe “cambiare”…, io no!).

Inoltre attenti agli stereotipi! Conosco la mamma di cui si diceva sopra: seria, credente, apprezzata sul lavoro, di buona famiglia ed ottimamente sposata con un uomo benestante; il suo matrimonio – però – è in difficoltà perchè lei si è fondata su un’idea certo non negativa; suggestiva, ma illusoria: quella della donna che ama tanto marito e figli da decidere di “sacrificare tutto” per questo amore. «É mio dovere farlo», pensa; ma se è solo un dovere, dov’è l’amore?

Conosco anche la sua amica che non ha lasciato il lavoro; la quale pure dice: «Non ne posso più» e invidia l’altra che fa solo la mamma e la sposa. Anche lei è vittima di un luogo comune: quello della donna pimpante, in piena forma, sempre calma e disponibile, tutta amore per i suoi cari, che “sa” brillantemente dividersi tra lavoro, casa ed impegno sociale.

Conosco, infine, anche l’uomo dinamico, che si destreggia abilmente tra moglie, figli, lavoro e (siccome è un uomo moderno) “vola” tra Meeting, CDA, cellulari, e visite dal pediatra. Anche lui però “Non ne può più”, ma non lo confessa; non può lamentarsi, perché non vuole rovinare l’alone di sicurezza che ha creato intorno a sé. Ma quanto durerà? Intanto ritarda sempre più a rincasare, fa molti straordinari e le cene di lavoro sono frequentissime.

Si potrebbe dire ancora molto, ma certo è che non si risolve il problema ricorrendo ai castighi: «Allora lo picchio e lo chiudo in camera”».

Ebbene che fare? Secondo me dobbiamo “poco” intervenire sui figli; ma “molto” su noi stessi attuando la pedagogia positiva che ci chiede di:

  1. a) liberarci dagli stereotipi e prendere seriamente la realtà: nessuno ha mai detto che sia facile essere genitori, ma non per questo deve esser considerato un lavoro forzato; non si è genitori per dovere, ma semmai per amore;
  2. b) accettare la propria “umanità”: è normale sentirsi talora stanchi morti, nervosi, tristi, anche “bruciati” da coloro che vivono accanto a noi (ma chi l’ha detto che dobbiamo sempre essere al top?); allora una pausa, un respiro, un buon riposo possono rimetterci in piedi pronti a ricominciare felici per la nostra bella famiglia;
  3. c) non “scioglierci” e non diventare altro: mi viene in mente la storia di Salina, bambola di sale che decide di buttarsi a mare perché è da lì che ella proviene ed è lì che è destinata ad andare; entrare nel mare immenso non significa, però, distruggere il suo esser sale, significa godere della totalità, mantenendo la propria “sostanza”; esser un bravo genitore non significa perdersi ed accettare qualunque cosa; significa non temere di dire “no”, significa farsi rispettare e non “lasciarsi andare” a quel che arriva; significa donare senza smarrirsi; significa dare tutto restando saldi nella propria personalità e nel proprio ruolo;
  4. d) ricavarci il giusto tempo per noi e per gli altri: ognuno di noi deve trovare i modi ed i tempi per sé, per fermarsi un minuto e gustarsi un caffé, per telefonare, per leggere, per camminare lentamente e per tornare altrettanto tranquillamente; deve pure trovare il tempo per dedicarsi alle cose che fa per diletto, cioè ai suoi hobby, al volontariato nell’associazione tal dei tali, all’incarico che ha (e che svolge volentieri) in parrocchia, all’oratorio, nel sindacato o nei servizi sociali, ecc.

Ce la faremo, certo! Semplicemente perché abbiamo fiducia che un buon impegno produce grandi risultati.

A scuola, infine, quante maestre (professori e professoresse) ho visto dare “tutto”; ma loro sono più fortunate perché – pur amando i loro alunni – non sono avvolte dal legame materno (o paterno) quindi sono più obiettive ed alla fine sanno esser equilibrate anche quando “non ne possono più”; brave!